MADE IN ILVA - Instabili Vaganti
Made in Ilva è uno spettacolo sincero. Prova a coinvolgere emotivamente e ci riesce, ma non vuole fare solo questo. Da spettatori, sulle orme di Brecht, non vogliamo immedesimarci nella storia, o piangere con l’attore e disperarci, non vogliamo commuoverci, se non per poco, ma vogliamo vivere quello straniamento che deriva dal ricevere la rappresentazione di come stanno le cose, e decidere di reagire, resistere, come hanno fatto gli operai e la popolazione di Taranto che hanno lottato per difendere lavoro e salute. Vogliamo rimanere straniati, colpiti e sconvolti da quello che vediamo sul palco per poter reagire con la forza del nostro corpo, operaio o meno, e con la nostra mente, e combattere per provare a modificare l’esistente.
La consegna al pubblico della rappresentazione teatrale Made in Ilva, della compagnia Instabili Vaganti (Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola) il 15 settembre 2017 a Bologna, presso i locali del centro LIV è stata questo: un racconto del dolore, della vita di fabbrica, delle difficoltà, della morte, della disperazione, della rassegnazione?
Tutto inizia come fosse una favola, con la voce in diretta di Anna Dora Dorno: c’era una volta una città in cui si producevano nuvole… e termina sempre come fosse una favola, c’era una volta una città, Taranto, in cui si producevano nuvole: bianche per la foschia, nere per i temporali e rosse per i tramonti […], made in Italy, made in Ilva. La formula della favola potrebbe trarre in inganno e far pensare che si parli di fatti inventati, che in fondo vissero tutti felici e contenti e così via. Non crediamo alle favole e dunque, Made in Ilva si presenta come una esasperazione della favola, c’era una volta questa realtà, che produceva questo: devastazione. La realtà Ilva è allargabile a gran parte del mondo del lavoro, perché parla di sfruttamento, ambiente, morte, resistenza. E questo vogliamo cogliere dallo spettacolo che hanno creato gli Instabili Vaganti: il mondo del lavoro ha sempre lo stesso format, il mondo vive diviso tra chi sta in alto e chi sta in basso, tra chi lavora per vivere ed è sfruttato e chi sfrutta. Questo è il punto che dobbiamo avere presente, sempre. Questo è il punto da ricordare a chi ci vuole imbrogliare facendoci pensare di essere tutti un unico corpo che si muove per raggiungere lo stesso obiettivo. No. Noi siamo il corpo operaio, lavoratore, il corpo devastato che cammina a fatica. Loro sono quelli che questo corpo devastano, brutalizzano, rendono sempre più debole.
La narrazione dal vivo di Anna Dora Dorno accompagna la performance teatrale molto fisica, acrobatica di Nicola Pianzola, unico in scena. La voce è calda e decisa, e ci introduce alla vicenda Ilva con delicatezza. Delicatezza che si dilegua nel procedere dello spettacolo. Il Pianzola urla, fa capire di cosa stiamo parlando: siamo in fabbrica e l’imperativo Lavora! viene sbraitato senza sosta per molti minuti e ad esso si accompagnano gesti, dita puntate che si muovono velocemente, braccia che si spostano a destra, sinistra, in alto e in basso, tanto per non perdere di vista nessuno, per indicare tutti: Lavora, lavora, lavora! Il ritmo è incalzante, le voci della Dorno e del Pianzola si rincorrono, si abbracciano, ora una sovrasta l’altra, si uniscono come in un coro, tutto corre e la musica, di Riccardo Nanni, è insistente, straziante, a tratti violenta; una corsa all’impazzata di una scansione che non accenna a diminuire e fa venire voglia di urlare. E si prosegue, ogni parola viene raggiunta da un’altra che ha un significato sempre più pesante, come quel gioco, in cui si inizia a ripetere una parole e ogni giocatore ne aggiunge una e bisogna ricordarle sempre tutte, nella progressione giusta: lavora, lavora produci, lavora produci crea, lavora produci crea agisci!. Ma no, non vogliamo giocare, però ci ricordiamo le parole, che sono importanti e gli Instabili Vaganti lo sanno, non sono tante le parole utilizzate nella rappresentazione, ma sono potenti e mostrano il mondo del lavoro, quello che va oltre l’Ilva ed è quello dello sfruttamento, capitalismo che si spande, si allarga fino alla distruzione dell’essere umano. Ma non si può annientare il genere umano, qualcuno deve pur lavorare, però si può sempre renderlo più fragile, frammentato, isolato e disponibile a lavorare a qualsiasi condizione. Questo raccontano la voce di Anna Dora Dorno e i gesti e le parole di Nicola Pianzola; le musiche sono avvolgenti e sconvolgenti, entrano dentro il corpo e lo animano, lo scuotono. Siamo scossi, e non vogliamo piangere, ma agire.
Tu sei un operaio, tu sei un corpo operaio, lavora, corri lavora e produci. Il corpo al servizio del lavoro, il corpo che si contrae e si brutalizza nella vita di fabbrica, il corpo che si può unire ad altri per formare un’unità che deve organizzarsi, pianificare la strategia di lotta, deve combattere, vuole avere il lavoro, che sa comunque essere devastante, ma vuole mantenere la salute, non vuole morire di lavoro.
[…] Le 6, le ore 6 sono l’inizio della mia giornata, inizia il giro della macchina che mi aspetta con la bocca spalancata.
[…] Sono campione, campione di lavoro in fabbrica, devo resistere, al freddo, al sole, corro, mi muovo
[…] Ho dimenticato completamente la mia faccia, la mia faccia, che faccia ho io?
[…] Chi è morto ditemi chi è morto
[…] Ferro freddo, corpo freddo, ferro acciaio, corpo freddo, corpo ferito
E così, come abbandonati, sentiamo freddo, il corpo operaio, l’acciaio, la realtà sono descritti con scarne parole e con i gesti di Pianzola che rappresentano al meglio la disperazione e la tristezza dell’essere costretto a vivere una vita da sfruttato.
Proviamo rabbia, la rabbia che ci fa pensare che abbiamo solo una via d’uscita: conoscere, sapere, informarci, studiare e stare uniti, non abbiamo altra possibilità. Non possiamo piangere, non ne abbiamo il tempo. Vogliamo sapere e reagire, vogliamo studiare quali sono le strategie da mettere in campo per provare a conquistare un piccolo spazio per il confronto, per la crescita politica, culturale, intellettuale, per avere strumenti sempre più potenti tra le mani e smascherare chi ci vuole ingannare rivestendo la nostra esistenza con un pesante abito che impedisce i movimenti e la cui trama è fatta di senso di ineluttabilità, impotenza e rassegnazione. No, questo non lo possiamo permettere, proprio perché abbiamo visto il corpo scosso e attorcigliato di Pianzola rappresentare anche il nostro mondo del lavoro, proprio per questo rifiutiamo di ridurci così: abbiamo la possibilità di costruire qualcosa, che sia anche solo una piccola consapevolezza delle dinamiche che muovono e distruggono le nostre esistenze. Costruiamola insieme.