Recensione di Emanuela Ferrauto per Dramma.it

16 febbraio 2013

L'Eremita contemporaneo - Made in Ilva

Il titolo di questo spettacolo ci fornisce la collocazione geografica, storica e umana di ciò che il pubblico osserva in scena. L’ILVA di Taranto, attualmente la più grande acciaieria d’Europa, diventa base di partenza per una ricerca artistica molto complessa. La regista è tarantina, Anna Dora Dorno, colei che presta anche la voce alle frasi sussurrate o cantate, accompagnata dal vivo dalla musica di Andrea Vanzo. Il protagonista è Nicola Pianzola, un “mostro” da palcoscenico che ci lascia esterrefatti. Ovviamente da un punto di vista positivo. Nonostante il testo, inconsueto rispetto alle tradizionali forme drammaturgiche poiché volutamente frammentario e sempre mutevole, riporti tematiche conosciute ormai da tutti, l’allestimento scenico del gruppo Instabili Vaganti ci fornisce un’immagine originale della commistione delle arti e dei suoni, elemento che da tempo non ritrovavamo in scena. Pare che il teatro contemporaneo stia tornando ad una classicità perduta per le eccessive ( e spesso banali) sperimentazioni, ma questo lavoro colpisce per le scelte registiche, luministiche, per gli incastri, i colpi di scena, per l’incredibile perfomance dell’attore e per l’attualità della denuncia. Ma diciamo la verità: colpisce perché è diverso. Del resto stiamo parlando di una compagnia pluripremiata, soprattutto all’estero. L’eremita è un operaio dell’ILVA di Taranto: ma questa definizione è limitante. L’attore è l’Uomo nella sua universalità, costretto alla ripetitività ossessiva del suo lavoro all’interno di una fabbrica che miete morti per incidenti o per cancri ma che è l’unico sostentamento di numerose famiglie al Sud Italia. La scelta della compagnia di portare l’attore al parossismo scenico è fondamentale. Ciò che meraviglia è lo studio accurato sui suoni. L’ossessiva ripetitività dei movimenti e dei rumori a cui vengono sottoposti gli operai vengono riprodotti in scena attraverso la voce, i sussulti del corpo, le mani, le braccia e i piedi dell’attore che diventano molteplici performer in un unico corpo. Il gioco del ritmo musicale è riprodotto attraverso l’utilizzo di tutte le parti del corpo. La voce che va continuamente in “refrain” colpisce l’udito degli spettatori, costruendo un’intera struttura scenica che stimola molteplici ambiti sensoriali. La volontà e il desiderio di questi uomini è legato al binomio: carne calda- ferro freddo. Vita e morte si contendono le giornate giustificate da una “fregatura”: lavorare per vivere e morire lavorando. L’omologazione, la ripetitività, la brutalizzazione, parola quest’ultima ripetuta fino all’ossessione, sono immagini della società contemporanea. Lo erano anche agli inizi del ‘900, e questo è ancor più inquietante. Il “dio” progresso viene issato sulle tombe dei caduti per il lavoro: la maschera del saldatore delle acciaierie. L’attore ci indica e ride di noi: siamo tutti uguali, come gli operai dell’ILVA nelle loro divise, maschere e numeri di matricola. L’annullamento dell’uomo è ancora in atto, ma stavolta è made in Italy.