Recensione di Anna Maria Monteverdi per Digital Performance

29 settembre 2020

Simona Frigerio racconta per Cue press The Global city della compagnia Instabili Vaganti.

La compagnia Instabili Vaganti fondata nel 2004 a Bologna da Nicola Pianzola e Anna Dora Dorno ha portato avanti per lungo tempo un importante progetto internazionale dal titolo significativo Megalopolis, viaggiando in Paesi lontanissimi per raggiungere teatri, fare formazione e spettacolo ma anche per vivere esperienze diversissime: parliamo di Uruguay, Messico, Corea del Sud, Svezia….. Questa esperienza totalizzante (e globale!) ha portato a uno spettacolo The global city messo in scena con successo nel 2019 al Teatro Archivolto (Teatro Nazionale di Genova).

Da spettatrice ricordo la freschezza di questo allestimento da me percepito come un ringraziamento a tutte le culture e al mondo nella sua diversità e varietà ma anche nelle  sue similitudini impressionanti, nel comune degrado, naturale e urbano, nelle situazioni e nelle persone così simili nella metro di Seul o di Milano. Incontri, suoni riti e visioni tradotti in gesti teatrali, video in scena, coreografie orchestrate insieme con giovani attori: corpi grondanti memoria, video frammentati come una rapida sequenza mentale (e poeticissima) di ricordi.

C’è una cosa che mi colpisce sempre quando incontro Nicola e Anna Dora e si può sintetizzare in una frase: “Credere nella parola teatro come unione degli opposti”. L’entusiasmo che li anima ad ogni loro progetto si poggia sul piacere dell’incontro con l’”Altro”: questo traspare dalle loro parole, dai loro racconti appassionati che propongono nell’Oratorio San Filippo Neri, il loro “quartier generale”, dove in occasione di Festival e Simposi, chiamano critici, autori, artisti a confrontarsi, complici proprio i loro spettacoli, le loro “narrazioni”.

The Global city ora è anche un libro pubblicato da CUE PRESS che ha come autori non solo gli Instabili ma anche Simona Frigerio, giornalista e acuta osservatrice teatrale, nonché grande viaggiatrice insieme al marito Luciano Ugge (anche lui appassionato di teatro). Quale miglior sguardo per raccontare questo teatro senza confini? E’ a Bologna, nell’ambito del Festival Perform’Azioni di settembre che Simona Frigerio e gli Instabili vaganti spiegano al pubblico le ragioni del libro (che ha l’introduzione di un giovane critico-filosofo: Enrico Piergiacomi) e la genesi di sette anni di lavoro e di viaggio, non uno senza l’altro. La sensazione che trasmettono le parole della Frigerio è quella di essere proprio lì, ad assistere alla magia dell’incontro di teatri e di luoghi che forse, non conosceremo mai direttamente, che non avremo mai la possibilità di visitare.

Rimaniamo davvero sconcertati da alcune immagini proposte dalla Frigerio, per esempio, dell’incontro con un teatro che a Città del Messico, vive sotto la costante minaccia della cancellazione, della censura, sotto il pericolo della propria sopravvivenza; e siamo altrettanto sconcertati dall’azione decisa di collettivi che nonostante questo, continuano coraggiosamente a fare del teatro il luogo di affermazione della verità e della denuncia. Nella vecchia Europa che teorizza l’artivismo (arte e impegno civile e politico) non si ha alcuna notizia di questi progetti, di questi Festival, di queste pratiche artistiche. Sono i “teatri alla fine del mondo”, teatri che non arrivano a noi. Per questo è ancora più importante il lavoro degli Instabili.

La Frigerio racconta con dovizia di particolari la creazione dei testi, la scrittura scenica organizzata e diretta da Anna Dora e Nicola e le sue difficoltà, ma anche il contesto generatore, la Storia dei luoghi e le sue contraddizioni, con la volgarità e la vergogna delle disparità sociali che vengono da lontano, ma anche la bellezza straordinaria dei paesaggi, l’indecifrabilità di usanze e costumi, la forza dell’arte teatrale di unire i popoli su palcoscenici improvvisati (una carcassa di un aereo, una strada affollata, una piazza isolata). UN lavoro impegnativo per Anna Dora e Nicola, ma sicuramente appagante: partito come progetto triennale finanziato dalla Regione Emilia Romagna, Megalopolis sbarca per la prima tappa proprio a Città del Messico: la prima cosa da fare è la ricerca del luogo adatto nello spazio pubblico, dove fare le azioni performative collegate con il workshop: fare teatro in piazza assume da sempre, in qualunque latitudine, una connotazione politica e in America Latina questo assunto ha un valore massimo. Questa del controllo e della censura sarà una costante che la compagnia si troverà di fronte: impareranno come fanno molti autori provenienti da Paesi a rischio democratico (vedi Jeton Neziraj del Kosovo…), a dire quello che vogliono dire senza far scatenare denunce e rappresaglie.

Il racconto dettagliato della Frigerio nel libro, restituisce a pieno la gioia e lo stupore della creazione, la scoperta delle nuove culture, i legami indissolubili che si sono creati a migliaia di chilometri di distanza con promesse di ricongiunzioni che si sono avverate tramite il teatro. Le incursioni della seconda tappa del progetto sono in Italia, al Fringe festival organizzato dagli Instabili a Barca in Emilia: partecipano al workshop attori provenienti da tutto il mondo, il progetto inizia a ingranare nel suo evidente obiettivo di “cammino globale” e di “scambio artistico”. Gli spettacoli o le “restituzioni” come vengono chiamati questi allestimenti in fase di preparazione, iniziano a prendere forma in varie situazioni. Alla Scuola Nazionale di arte drammatica una delle massime istituzioni teatrali del Messico, gli Instabili portano in scena una vicenda recentissima, di violenza di Stato e di sparizioni. Vengono informati di ciò che accadde dagli studenti del corso, che hanno paura a parlarne e giustificato timore di ripercussioni. E’ la Frigerio che ci racconta in sintesi l’evento alla base dello spettacolo: “Il 26 settembre 2014 tre autobus (cooptati da alcuni studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa per raggiungere Città del Messico, dove avrebbero partecipato alle celebrazioni per l’anniversario del massacro di Tlatelolco) sono intercettati dalla Polizia di Iguala, che uccide sei universitari, ferisce venticinque persone e rapisce quarantatré ragazzi, consegnandoli poi, con tutta probabilità, a un Cartello della zona per farli sparire definitivamente”. La “restituzione” è Desaparecidos#43 in cui –come sottolinea la Frigerio – l’affermazione a voce alta di essere “presenti” assume una forza vitale e un valore simbolico che i giovani attori messicani affidano nelle mani della compagnia Instabili vaganti per farne cassa di risonanza mondiale. Un impegno e una promessa di non dimenticarli.

Sconcerta anche il racconto del viaggio-studio a Tampico, quando la compagnia viene informata che non solo giornalisti ma anche collaboratori del Festival dove loro stessi sono ospiti, sono scomparsi negli anni precedenti e che nello stabile “ogni casa ha un desaparecido”: la condizione di pericolo non appartiene più solo a oppositori della casta politica o del cartello locale ma si estende al teatro, un teatro che rivela evidentemente verità scomode, che cerca di unire le persone. Un teatro che va cancellato. Le tappe sono poi numerose e diventano la spina dorsale del lavoro degli Instabili che è come un fiume che attraversa Stati e Continenti assorbendone peculiarità e linfa vitale. Quello delineato dalla Frigerio è uno straordinario viaggio esperienziale e sensoriale offerto al lettore come un romantico diario di bordo della compagnia che contiene tutta la bellezza dello scambio, del gioco, del dono e che consigliamo a tutti coloro che vogliono capire qualcosa di più del metodo teatrale della compagnia Instabili vaganti e del teatro al di là dei confini dell’Europa.

Quello che non c’è scritto nel libro è qualcosa che appartiene all’oggi. Di globale c’è solo una pandemia che ha colpito duramente tutti e che il teatro ha vissuto come una ferita mortale. Gli Instabili hanno fatto tesoro di queste preziose collaborazioni e pur vedendosi cancellate tutte le tournée, hanno instancabilmente continuato a immaginare workshop a distanza, su piattaforme on line: ancora incombe l’Occhio del Grande Fratello via web, specie quando lavorano con artisti iraniani. Al Festival Perform’Azioni 2020 raccontano le difficoltà ma anche la bellezza di ritrovarsi lontani ma vicini, a capire da un estremo all’altro del mondo cosa è urgente dire adesso. E la restituzione in forma di performance a settembre all’Oratorio San Filippo Neri di Bologna, che apre per la prima volta dopo la pandemia le porte al pubblico, è genuina nel suo messaggio. Il gesto, il movimento, nel palco ritrovato assume un valore completamente diverso anche per noi, abituati per troppo tempo a sedute lunghissime via Zoom. Ci sono testimonianze in video e ci sono parole e coreografie: la paura di interrompere definitivamente un ciclo che non è solo artistico ma di vita è vinta grazie all’applauso caloroso del pubblico reale in un teatro vero, che corrisponde a un abbraccio globale e a un apprezzamento incondizionato.

Lo spettacolo finisce con il video dalla Cina, della ragazza sul terrazzo di un alto edificio che dopo una danza ripresa col cellulare, affida al cielo un palloncino rosso. Immagine che va dritta al cuore: a me ha ricordato la famosa opera di Bansky e il suo evidente messaggio positivo: There is always hope.