Intervista di Andrea Pannocchia per L’Ordinario alla direzione artistica di Instabili Vaganti

15 Ottobre 2019

‘Instabili Vaganti’, quando il teatro diventa reporter del mondo

Nei giorni scorsi, al Teatro Nazionale di Genova, ha debuttato The Global City, realizzato dalla Compagnia “Instabili Vaganti”, diretta artisticamente da Nicola Pianzola e Anna Dora Dorno, che del nuovo spettacolo è anche la regista.

Lo spettacolo è una co-produzione con il Teatro Nazionale di Genova, El Florencio e il Festival FIDAE 2019, Uruguay. Con questo progetto di produzione, la compagnia ha vinto il bando “Per Chi Crea” promosso dal Mibac e gestito da Siae.

L’esordio genovese è stato salutato da un grande successo di pubblico e di critica, e ne abbiamo approfittato per scambiare alcune battute con Nicola e Anna Dora.

Per capire come nasce questo lavoro, certamente, ma anche per saperne di più sulla storia di una Compagnia sui generis e, sin dall’inizio, indissolubilmente legata a orizzonti transnazionali.

 “Instabili Vaganti”: quando nasce e perché questo nome?

NICOLA: Il nome è diventato un po’ il nostro destino, nel senso che noi nasciamo nel 2004 come Compagnia, fondata da me e da Anna Dora Dorno, regista e attrice lei, attore e performer io. Una Compagnia di teatro sperimentale, di ricerca. Abbiamo deciso di intraprendere un percorso insieme, di costruire una poetica comune a partire dalle nostre visioni artistiche. Io arrivavo più dal mondo del teatro fisico, e se vogliamo a quell’epoca del circo contemporaneo, e lei dal teatro e dalle arti visive. Abbiamo scelto questo nome, ispirandoci un po’ allo spettacolo viaggiante, che allora ci affascinava come immaginario, e poi il nome è diventato un po’ il nostro destino, perché nel giro di pochi anni abbiamo cominciato a girare il mondo con il nostro teatro, dirigendo dei workshop e dei progetti internazionali e circuitando con i nostri spettacoli. Ad oggi, dopo quindici anni, siamo caratterizzati da una circuitazione mondiale che ci spinge anche nei posti più remoti del pianeta, quasi irraggiungibili normalmente, figuriamoci dal teatro. Per cui il nome, dopo anni, ci calza a pennello ed è anche da questa itineranza creativa che è nato The Global City.

Quindi, sin dall’inizio, una connotazione internazionale ce l’avete avuta? Non vi siete rivolti a un pubblico meramente o prettamente italiano?

Nicola: La nostra poetica abbraccia un linguaggio universale, cross disciplinare, nel senso che utilizziamo differenti mezzi espressivi, la parola in più lingue, il suono, il movimento, la musica originale, il video… Quindi i nostri spettacoli hanno un impatto anche molto visivo, fisico ed emotivo, e possono essere letti da differenti pubblici, diverse generazioni e diverse nazionalità. Abbiamo poi iniziato, nel 2014, a tradurre meticolosamente i testi degli spettacoli, che nascevano in italiano, in altre lingue, e oggi abbiamo spettacoli che a tutt’oggi circuitano con tre versioni differenti, recitate quindi in italiano, in spagnolo (perché molte delle nostre tournée si svolgono in America Latina) o in inglese (lingua con cui, ad esempio, ci esibiamo in Asia e nei Paesi del Nord Europa). The Global City nasce già in tre lingue e quindi viene rappresentato anche in Italia, con frammenti di testo in spagnolo e in inglese, perché si rifà proprio ai ricordi che noi abbiamo collezionato nelle megalopoli che abbiamo attraversato in occasione di precedenti produzioni.

A questo punto è il caso che la regista di The Global City, Anna Dora Dorno, ci inquadri meglio la nuova performance.

ANNA DORA: Io sono innanzitutto l’ideatrice del progetto Megalopolis, da cui parte sostanzialmente l’idea di sviluppare The Global City. Come Compagnia noi siamo caratterizzati da questa metodologia. Lavoriamo prima a dei progetti di ricerca, attorno a delle tematiche che suscitano il nostro interesse, e in questo caso era già da un po’ di tempo che lavoravamo attorno al concetto di “megalopoli”, proprio perché ci siamo ritrovati a lavorare spesso in città molto grandi, in tutto il mondo. Indagando i temi che emergevano, soprattutto attraverso dei workshop, con persone che ci abitano, abbiamo deciso di addentrarci sempre di più all’interno di questo meccanismo. La megalopoli è diventata un po’ un faro, all’interno del quale abbiamo costruito questa mappa esperienziale che comprende i nostri ricordi e che ci permette di costruire una “città globale”, composta da tutti i frammenti delle città che noi abbiamo attraversato. Non è una città vera, reale, da un certo punto di vista, perché è composta da tutti questi frammenti, ma allo stesso tempo lo è, proprio perché questi frammenti rappresentano i ricordi del nostro vissuto, che sono realmente accaduti.

Potremmo allora definire questo nuovo spettacolo un’antologia dei vostri spettacoli, o la summa della vostra esperienza artistica?

ANNA DORA: Sì, secondo me è proprio così, perché fra le altre cose attraversa anche tutte le tematiche che noi abbiamo affrontato in altri spettacoli. Un esempio fra tutti: noi abbiamo sviluppato, all’interno di Megalopolis, uno spettacolo che si chiama Desaparecidos 43, sugli studenti scomparsi in Messico, proprio perché ci trovavamo appunto lì quando questi episodi sono accaduti e stavamo lavorando con degli studenti messicani; a quel punto ci siamo immersi in quell’argomento e poi da lì è nato lo spettacolo. Chiaramente, anche in questo spettacolo, emergono i ricordi che ci hanno portato alla costruzione di quel precedente spettacolo, quindi sì, è come se attraversassimo tutti questi anni che abbiamo appunto passato a collezionare ricordi all’interno delle megalopoli, assommando il tutto in questa città globale. The Global City è anche una summa dal punto di vista dei linguaggi. Vi confluiscono diversi codici, per esempio i video che utilizziamo nello spettacolo sono stati tutti girati in varie parti del mondo; non sono delle opere create ad hoc successivamente, ma rappresentano proprio quello che noi abbiamo vissuto in quel periodo e in un determinato contesto.

Cosa deve aspettarsi chi vuole venire a vedere lo spettacolo?

Nicola: Intanto ci tengo a dire che questa è una produzione del Teatro Nazionale di Genova ed è una co-produzione internazionale, perché l’altro partner produttivo è Festival FIDAE, in Uruguay, e il Teatro Fiorenzo Sanchez di Montevideo. Abbiamo attivato una collaborazione internazionale connettendo anche due città, Montevideo e Genova, che hanno pezzi di storia comune. Il quartiere dove ha sede il teatro a Montevideo è alla periferia della città e si dice che sia stato fondato da italiani, in particolare da genovesi. E là mangiamo la fainà, la farinata, di origine ligure, ma che è un piatto tipico, nazionale, dell’Uruguay. Detto questo, in scena, oltre a me e ad Anna Dora, c’è un coro scenico di 7 attori/danzatori. La vittoria del bando del Mibac ci ha permesso di sostenere un progetto ambizioso, senza considerare che oltre alle 9 persone in scena ce ne sono altre 4 alla parte tecnica. Adesso penseremo a come portare in giro lo spettacolo in Italia e all’estero, in contemporanea con le altre nostre produzioni. Pensa che i prossimi impegni saranno in Svezia e nella Patagonia cilena, dove porteremo un altro spettacolo, Made in Ilva, basato sugli scritti e le testimonianze degli operai dell’Ilva di Taranto.

Nello spettacolo ci sono anche tematiche legate all’attualità e di forte impatto sociale. Il vostro non è dunque solo uno sguardo artistico…

NICOLA: Sì, nel teatro che noi facciamo c’è sempre uno sguardo civile, perché anche in altri spettacoli abbiano trattato delle tematiche a volte scomode, scottanti, ma che in qualche modo ci riguardavano. Per esempio per un legame personale, come nel caso dell’Ilva, perché Anna Dora è di Taranto. In questo caso noi siamo partiti dalle esperienze che abbiamo vissuto in questi Paesi, che si collegano a tematiche locali. La differenza fra le classi sociali, le caste, in India; lo spread fra la vita in piena povertà fra gli slum delle megalopoli indiane e un Paese che economicamente sta crescendo, con un aumento del divario fra quelli che sono ricchissimi e le persone che ancora vivono in condizioni disastrose. Appare nel testo, che ho scritto io, anche la crisi fra le due Coree, che continua a tornare ed è attualizzata anche proprio ultimamente dall’intervento di Trump, che appare come personaggio nello spettacolo. Però io la racconto come mi è stata raccontata dagli anziani di un villaggio nelle risaie della Corea del Sud che durante una festa mi hanno invitato al loro lungo tavolo come ospite straniero (non avevano mai visto un occidentale prima) e mi hanno narrato quella che secondo loro è la verità della storia del conflitto. Quindi ci sono diverse tematiche che hanno legami anche con zone di confine, problematiche, nelle quali abbiamo lavorato. Ad esempio nel nord del Messico, minacciato da situazioni che avevano a che fare col controllo imposto dal narcotraffico sulla città stessa; però non c’è una visione solo legata a queste problematiche ma appaiono le culture così come sono, così come le abbiamo vissute, con i loro contrasti e con assurdità che sono anche affascinanti. Tutte queste emozioni le abbiamo cercate di raccogliere e di tradurre in azioni sceniche. Il pubblico vedrà anche azioni molto corali, quasi coreografate, anche perché ci sono 9 persone in scena, c’è una doppia videoproiezione che invade lo spazio scenico e crea un caleidoscopio molto distopico; ci sono canzoni nate proprio nello spettacolo e che sono state musicate dal nostro compositore Riccardo Nanni, che ha composto musiche originali. Appaiono i personaggi che abbiamo conosciuto nelle megalopoli. Dai lottatori mascherati della lucha libre di Città del Messico a personaggi intravisti negli slum indiani. Insomma,  è come se lo spettatore avesse un biglietto per un viaggio che magari lo può collegare ai ricordi, delle stesse città, forse vissute in maniera differente.