Recensione di Daniela Delzotti, Voci dalla Soffitta

26 marzo 2011

Le leggendarie note di un canto secolare, riscaldato dalla luce di candele profumate, in un deserto, sacro e sospeso, di sabbia, legno e rocce. Un’antica danza rituale che ritorna ai passi ancestrali dell’uomo, laddove non era una lingua codificata a unire ma un linguaggio universale, fatto di archetipi, corpo e voce. E in questo panorama ecco comparire l’uomo, destrutturato, primitivo, scrigno di una memoria che diventa biologica e universale. Il Bauhaus si congiunge alla visione grotowskiana dell’Arte, attraverso una ricerca instancabile che come un contenitore si riempie senza fine di viaggi, rituali e tradizioni appartenenti a popoli differenti tra loro ma legati da una comune matrice antropologica. Ed è proprio questa la chiave in cui si sviluppa questo nuovo attore sacro che si fonde col video, sino a creare un’unica unità, in una realtà sospesa, atemporale e aspaziale. Lo stesso movimento del corpo dell’attore è fluido e supera le barriere fisiche per divenire un unicum con il Tutto. Un movimento che si fa danza silente, vellutata che al contempo grida al mondo la sua sete di rinascita. E così il lutto di un’antica sposa e il dolore di un uomo incappucciato attende impaziente la redenzione di una prossima Resurrezione attraverso un rituale che si rigenera continuamente. Questo percorso iniziatico si avvale di tre momenti. Nel primo il neofita affronta la memoria del corpo, un sottopelle proustiano; nel secondo rivive la memoria della carne in senso viscerale. La terza tappa è un canto dell’assenza che si nutre di memoria collettiva, danze rituali e musiche popolari. Dalle viscere dell’esistente umano dantescamente si ritorna a riveder le stelle.