Recensione di Erika Cofone per Teatro Persinsala

30 marzo 2015

«Volevano seppellirci, ma non sapevano che eravamo semi»

[…] Il progetto Megalopolis è nato nel 2012 a Città del Messico dalla volontà di artisti e studenti dell’Università. […] Megalopolis è un occhio puntato sui vari scenari del mondo, a partire da quelli di disagio e lotta, dove i diritti umani vengono usurpati e le diverse libertà limitate da imposizioni restrittive. «È un grande laboratorio teatrale internazionale che vuole indagare il processo della globalizzazione in tutti i suoi aspetti positivi e negativi». Il lavoro delle compagnie, dunque, si concentra principalmente sulle grandi città, le megalopoli appunto, fonti inesauribili di esperienze urbane ideali per studiare, indagare, analizzare, e poi svolgere e diffondere un teatro sociale.Lo spettacolo [Megaloposil#43] porta l’attenzione sull’ultima strage messicana, su quel 26 settembre 2014, quando 43 studenti di Ayotzinapa (Iguala, Messico) scomparvero – morti, bruciati vivi e sepolti in una fossa comune – dopo un fermo dalla polizia. […]. Odierna la tragedia e odierno il linguaggio con cui la compagnia porta in scena lo spettacolo. Nel titolo viene, infatti, utilizzato un simbolo che invade la rete, l’hashtag, per promuovere e diffondere una forma di conoscenza che arrivi ai più. […] Contemporanea anche la forma dello spettacolo. Un teatro fisico, fatto di materia recitativa, supporti di immagini e sonori, di diverse forme che coinvolgono il canto e melodie strazianti, cariche di pathos. Corpi che si contorcono, che simulano il dolore, che danno risalto ai gesti, un’azione performativa che desta turbamento, scuote e permea. E la reazione del pubblico alla fine dello spettacolo, cioè qualche secondo di silenzio prima di partire con l’applauso, è essa stessa indice di un riuscito effetto. […] i giovani artisti sono riusciti a immedesimarsi e a far immedesimare in un dolore, in un’ingiustizia, forse, in realtà indefinibili. Ecco che per definirle e comprenderle si impiega il più comunicativo linguaggio del corpo, e le parole sono slogan ed espressioni che ricordano l’animosità che riscalda le piazze «Vivos se los llevaron y vivos los queremos!». Come anche immagini sul fondale, foto degli studenti che si alternano per tutto lo spettacolo, accompagnate da parole che si ripetono, rimbombanti, lente, pesanti, laceranti, utilizzate in modo tale da imprimere nella mente tutta l’angoscia del caso, tutta la tristezza che, da propria di un popolo, diviene comune […]. Lo spettacolo procede come a rallentatore, come se il tempo si fosse fermato nell’osservanza di un lutto. […] Estremamente reale, non si applicano tagli nel narrare i dettagli delle torture, nel rappresentare un urlo disperato […] “l’urlo nero della madre […]” [Quasimodo]. […] Il messaggio è che siamo tutti coinvolti, nessuno escluso «anche se ora ci siamo tutti, non siamo tutti» e «se tu fossi il 44?». […]sulla scena […] Le mani di rosso sangue dipinte, lo straziante soffocamento di una bocca che anela libertà e rantola un «no quiero vivir mas con miedo», ‘non voglio più vivere con paura’ […]